Massimo Coen Cagli parteciperà al Festival come relatore, con una sessione che affronterà, insieme a Marianna Martinoni e Niccolò Contrino, il tema del Fundraising per la cultura. Questa infatti rappresenta un settore che è stato particolarmente colpito dalla crisi della pandemia, tanto da poter parlare di "emergenza nell'emergenza". I tre relatori porteranno all'attenzione tre casi concreti dal pre-durante-post pandemia, per dare idee e spunti direttamente applicabili.
Le conoscenze di Fundraising di Massimo Coen Cagli vanno, in realtà, ben oltre la sola cultura. Docente e consulente, Coen Cagli è fondatore e direttore scientifico della Scuola di Fundraising di Roma; ha, inoltre, scritto il primo manuale italiano di Fundraising e numerosi saggi. Nel 2016 ha pubblicato il Manifesto per un nuovo Fundraising.
Come si sarà dedotto, poter scambiare quattro chiacchiere con un ospite tanto esperto è un privilegio che non capita tutti i giorni. Per questo, abbiamo approfittato della disponibilità di Massimo per fargli qualche domanda sulla situazione del Fundraising in Italia.
Quali sono le caratteristiche che contraddistinguono un buon fundraiser a suo parere?
Per rispondere a questa domanda bisogna fare una premessa: non esiste un’unica figura professionale che risponde al nome di fundraiser ma esiste un’area professionale all’interno della quale si muovono differenti figure. Una cosa è il consulente, non solo dal punto di vista contrattuale, consulente è colui che aiuta l’organizzazione a dotarsi di una strategia di raccolta fondi, un’altra cosa è essere manager del fundraising che è quello che guida la macchina per portarla poi agli obiettivi; un’altra cosa ancora è il promotore di impresa sociale che cerca finanziatori su imprese e progetti, un’altra cosa è la dimensione di figure tecniche che sono caratterizzate dalla conoscenza di determinate tecniche di raccolta fondi. Quindi l’idea che esista un’unica figura di fundraiser è limitativa della complessità di quest’area. La risposta alla domanda è dunque legata alla figura di fundraiser cui facciamo riferimento.
Consideriamo principalmente la figura del fundraiser come “colui che manda avanti la macchina”, cui faceva riferimento in precedenza, evidenziando poi, se ci sono, alcune caratteristiche comuni alle diverse figure da lei elencate.
Fundraiser è colui che deve avere uno spirito imprenditivo e quindi saper convivere col fatto che è necessario saper rischiare, quindi investire, ricercare, procedere per prove d’errore e, come tutti gli imprenditori, avere lungimiranza, però prestando particolare attenzione a portare il risultato a casa nel breve termine. Poi si può avere anche un contratto dipendente ma è importante lo spirito imprenditivo.
La seconda caratteristica è saper convivere con lo stress, perché comunque al termine c’è una questione vitale ovvero i soldi per le cause sociali; un pezzo di questa responsabilità sarà comunque sulle spalle del fundraiser, e inevitabilmente questo genera dello stress.
Una caratteristica che viene richiamata poco ma a parer mio è molto importante è il fatto di avere un approccio multidisciplinare. Tu puoi essere anche un super esperto di marketing e di fundraising ma è necessario che porti nel tuo bagaglio un po’ di sociologia un po’ di psicologia, un po’ di amore per l’arte, e questo perché il fundraiser affronta una realtà estremamente complessa: le motivazioni a donare, i diversi meccanismi relazionali, contemporaneamente le dinamiche di mercato… e avere pochi set di conoscenze disciplinari ti porta ad essere un po’ debole, cioè ad avere poche risorse con cui spiegare la realtà che ci circonda. Realtà estremamente complessa e che dobbiamo sapere interpretare soprattutto nel contesto italiano in cui, anche se si stanno facendo passi avanti, il fundraising e la figura del fundraiser non sono completamente digeriti. In questo senso è importante avere un approccio multidisciplinare per sapersi muovere.
Mi può spiegare più nello specifico cosa intende per “non sono completamente digeriti”?
Noi abbiamo diversi modi, alcuni totalmente opposti, per descrivere cos’è il fundraising: si va dalla beneficenza, alla carità, agli scambi commerciali, a chi le considera come sponsorizzazioni… quindi gli interlocutori non sempre intendono la stessa cosa che intendi te come ruolo professionale, spesso non c’è corrispondenza. Mentre invece in altri Paesi la figura è già affermata, c’è un minimo di cultura del fundraising e quindi è molto più facile interloquire con altri soggetti e con i mercati stessi.
Possiamo identificare alcune caratteristiche indicative di una non predisposizione a questo mestiere?
Un limite che vedo molto forte e la tendenza soprattutto nei ‘professional’ a creare una netta distinzione e dicotomia tra la Governance di un’organizzazione e la sfera del fundraising come se ci fosse una sorta di contrapposizione tra i due mondi che in questo modo non si incontrano, e questo non aiuta il fundraiser che dovrebbe essere, in questo caso, più ecumenico, più disponibile a mettersi in gioco e ad adottare il punto di vista di chi ha dato vita un’organizzazione e che probabilmente non ha una conoscenza approfondita del fundraising e delle sue dinamiche. La ragione per cui il fundraising non funziona non può essere individuata nella non comprensione e condivisione di obiettivi da parte del CdA che sì può rappresentare una difficoltà, ma non dovrebbe essere considerata come la ragione per cui il fundraising non ottiene ancora la giusta visibilità e valorizzazione. Un’altra caratteristica negativa è l’essere autoreferenziali ovvero vedere la questione del fundraising sono nell’ottica del fundraising invece che in un quadro più ampio riguardante la sostenibilità non solo economica ma anche culturale, politica e sociale di un’organizzazione.
Ci sono stati cambiamenti che hanno riguardato la professione negli ultmi anni? Anche rispetto al rapporto con il donatore ha notato dei cambiamenti significativi?
Complessivamente l’ambiente delle organizzazioni è migliorato rispetto al fundraising; prima veniva visto come una cisti, una cosa da tenere quasi esterna al funzionamento dell’organizzazione stessa, invece negli anni il significato del fundraising è cambiato anche grazie al lavoro di sensibilizzazione fatto, e questo favorisce il dialogo sia con le posizioni apicali all’interno dell’organizzazione, sia con le figure esterne che fanno parte di altre organizzazioni. Ora la progettazione non è più slegata dalla raccolta fondi ma si ha più la consapevolezza che la progettazione sia influenzata e determinata dalla possibilità di ottenere e raccogliere fondi, quindi le due attività sono molto più collegate e dialoganti rispetto a prima. C’è un ambiente sempre più favorevole, accogliente nei confronti dei professionisti del fundraising.
Rispetto alla concorrenza, il mio osservatorio è anche quello di socio Assif, vedo che all’interno del settore c’è una tendenza a condividere, collaborare, e a creare uno spirito di corpo che sicuramente si può migliorare ma non noto particolari problemi. Noto invece una tendenza a sopravvalutare il tema della concorrenza tra i fundraising delle diverse organizzazioni… secondo me in Italia siamo ben lontani dall’aver raggiunto il massimo del mercato. Spesso il tema della concorrenza veniva usato come giustificazione per la mancata riuscita di campagne di raccolta fondi… non credo che la concorrenza sia il problema numero uno in Italia.
Se dovessimo pensare ad una metafora per il fundraiser?
Ti citerei la frase di Antoine de saint-exupéry che dice: «Se vuoi costruire una barca non radunare uomini per tagliare legna, dividere i compiti e impartire ordini ma insegna loro la nostalgia per il mare vasto e infinito».
Considerando quindi tutti gli aspetti affrontati e secondo quella che è la sua esperienza, fundraiser si nasce o si diventa?
Ci si diventa… io sono nato non fundraiser. Io come molti italiani avvertivo un fastidio anche solo nel chiedere soldi, però sicuramente avevo già in partenza delle caratteristiche come quelle che abbiamo affrontato prima tipiche del fundraiser; ma fundraiser ci si diventa andando a scuola e praticando come tutte le professioni. È vero che c’è una parte naturale ma poi devi sempre scoprire il fundraiser che c’è in te e questo lo fai con la formazione e la pratica, non c’è alternativa. Anche l’idea che il fundraiser sia un artista per me è un enorme fesseria, anzi un pericolo: il fundraiser è un bravo professionista come tutti gli altri, spesso infatti si tende a ricondurre il fallimento di una raccolta fondi al fatto che il fundraiser non è stato un buon artista e questo è profondamente sbagliato. Spesso pensiamo che questa professione abbia a che fare con due dimensioni: la prima è l’organizzazione che deve trovare soldi, la seconda è quella che vede il fundraising come una misura correttiva degli errori della finanza pubblica e del mercato, ovvero laddove non si riescono a fare determinate cose con la finanza pubblica, con il libero mercato, allora arriva il fundraising e ci mette una pezza, una toppa. Quindi arriva dove non riesce ad arrivare lo Stato nell’assistenza ai più deboli ad esempio, e questa per me è una visione riduttiva del fundraising che va combattuta perché io sono convinto che nello scenario futuro la società non sia sostenibile senza il supporto dell’economia sociale e la sua crescita, e lo strumento principale dell’economia sociale è il fundraising, non possono essere né le tasse e né il libero mercato. Occorrerà tempo e in Italia forse anche tanto ma diventerà una delle figure più importanti in tutti i settori basti pensare che anche il for-profit negli ultimi anni tende sempre di più a definirsi in un’accezione sempre più attenta al sociale. Rappresenta uno strumento importante per il futuro del mondo e a parer mio si apriranno scenari di maggiore offerta sempre che si prenda sul serio questa sfida.
Ringraziamo Massimo per la disponibilità e gli spunti, come sempre, interessanti. Come detto, lo ritroveremo al Festival del Fundraising con la sessione "Fundraising per la cultura prima, durante e dopo l'emergenza: 3 casi concreti da cui ripartire". A presto!