Intervista di Quoziente Humano al presidente del Festival del Fundraising Stefano Malfatti
“Comunica, sostiene, mette a posto alcune situazioni”.
Il dono, nella visione di Stefano Malfatti, presidente del Festival del Fundraising – evento dedicato alla raccolta fondi per il terzo settore, in programma a Riccione i prossimi 6,7 e 8 giugno, il cui tema di questa edizione è Avrò cura di te – consente di entrare in relazione senza dover parlare, precede la dimensione del racconto”. Per questo e altri motivi che l’hanno appassionato durante tutto l’arco della sua carriera nel mondo del nonprofit, Malfatti sostiene: “Vale la pena investire energie e risorse per trovare la strada attraverso cui il dono possa arrivare o partire. Questo è il vero senso della professione del fundraiser”.
Il tema del nonprofit nel nostro Paese è controverso, perché ho l’ambizione di dire che il mondo in generale e l’Italia in particolare poggiano sul terzo settore. Se ognuno di noi ci facesse caso, la vita è costellata di enti, organizzazioni che sono nonprofit e che punteggiano la nostra esistenza dalla nascita fino alla morte. Il nonprofit è onnicomprensivo perché interpella istituzioni, aziende e individui: deve essere incentivato e supportato rispetto a quello che offre. Spesso la sua importanza non va di pari passo con quanto ottiene in termini di visibilità e valorizzazione. Questa azione dovrebbe arrivare da parte dello Stato e dell’individuo, in mezzo ai quali si colloca il nonprofit.
Al dato economico che il nonprofit genera, deve essere affiancato anche il ritorno sociale e i valori che il settore porta con sé. Mi riferisco a uno slancio laico che l’uomo e la donna esprimono spesso nella loro quotidianità.
Anche una manifestazione come il Festival, al di là del fatto che sia legata al tema del Fundraising, è bene che porti i riflettori su questo tipo di organizzazione e soprattutto sulle professionalità che imprimono uno slancio forte rispetto a quello che questo mondo esprime.
È una questione culturale. C’è un paradosso in Italia: nei periodi in cui dobbiamo far fronte a emergenze, come è stata la pandemia, o in occasione di eventi traumatici, come possono essere i terremoti, ma anche in questi giorni, con gli effetti che la guerra produce nel nostro Paese, il cittadino medio fa fatica a parlare delle iniziative nonprofit. Quando sui media appaiono notizie legate al terzo settore quello che spesso emerge è lo spunto critico dell’italiano. C’è una tendenza nella nostra società che tende allo strabismo: da una parte vi è una grande sensibilità al volere essere di supporto, dall’altra prevale il silenzio. Un inglese non vede l’ora di raccontare che passa la sua domenica a distribuire fette di torta per una causa in piazza, il cittadino italiano fa volontariato però non lo dice. Io stesso ho collaborato a un tema che è quello dei lasciti testamentari, tante volte ho raccolto la straordinaria disponibilità di un donatore, che però non voleva che si sapesse. La questione è culturale: non si parla per raccontare il bene che si riesce a generare, ma per fare emergere contraddizioni e problematiche.
C’è grande creatività nel nonprofit. Forte del fatto che parte sempre da un bisogno, il settore genera idee e opportunità.
È una legge di natura che il momento della necessità faccia in modo che non ci si sieda. Si scatenano creatività, coinvolgimento, gioco di squadra: tutti elementi che nascono dall’urgenza di condividere un obiettivo in comune. Il nonprofit spesso produce soluzioni accattivanti con anche un certo dimensionamento del budget. Le difficoltà sono spesso il motore di idee che più difficilmente si riscontrano altrove.
Lo slancio. Dal 2016 sono direttore della comunicazione e della raccolta fondi all’Istituto Serafico di Assisi, una struttura piccola nel cuore dell’Umbria. Il centro si occupa di un bisogno molto particolare, la disabilità complessa fisica e psichica. Stiamo parlando di una disabilità che si riferisce tutto sommato a pochi, ma quei pochi sono comunque tanti. Riuscire a occupare una nicchia di questo tipo ha fatto dell’Istituto Serafico un’organizzazione particolarmente significativa nell’ambito della disabilità grave. Mi entusiasma scoprire i bisogni, anche quelli reconditi, e utilizzare le risorse che si riesce a mettere insieme in termini di professionalità ed energia per prendersene cura. Cerco di fare sì che il mio lavoro diventi patrimonio di tanti.
Il dono è la sintesi tra quello che sei e come vuoi declinare te stesso in una dimensione che ti appartiene. Molto spesso ho visto famiglie litigare e poi attraverso il dono testamentario sanare certi contrasti. Nel testamento è insito il tema del dono coniugato a quello della famiglia. Il dono perdona prima delle parole. Il dono diventa simbolo: sostiene chi ne ha bisogno, gratifica chi lo fa, genera energie positive, stabilisce una relazione, cura i rapporti. Il dono non deve essere inteso nella sua relazione economica: se lei mi invita a cena, non le chiedo che cosa mi preparerà come primo e secondo per portarle un regalo equilibrato. Le porto un mazzo di fiori e una bottiglia di vino. È il mio grazie perché le resti un simbolo di quello che si è stabilito fra di noi nel momento in cui mi ha invitato a cena.
La cultura della raccolta fondi è in crescita, c’è una corsa costante anche delle piccole organizzazioni per trovare il loro modo di assumere una consapevolezza forte rispetto al tema. Chi immagina di fare raccolta fondi aprendo un cassetto e tirando fuori dei soldi, sbaglia. La raccolta fondi è fatta di costruzione di relazioni, strumenti particolari, dialogo nel tempo, rapporti che solo alla fine approdano in una donazione. C’è maggiore consapevolezza che la raccolta fondi abbia bisogno di professionisti che sappiano come amministrare relazioni e strumenti.
Occorre guardare cosa si fa all’estero, per prendere esempio, ma anche per allontanarsi. La nostra è una cultura totalmente diversa dalle altre dimensioni sociali e culturali che ci circondano, penso a quelle anglosassoni, o di oltreoceano, o anche al Sud del nostro mondo. La raccolta fondi e l’esigenza di trovare sostegno alla propria causa è quella che a volte guida la causa stessa. Molto spesso è curando le relazioni con i potenziali donatori che ci si accorge di avere una modalità di racconto dell’organizzazione sbagliata, che la mission non è chiara. Faccio un esempio: in Italia abbiamo l’abitudine di chiamare le organizzazioni con acronimi, se guardiamo al mondo internazionale questa caratteristica non esiste, perché si intende realizzare un naming chiaro rispetto alla mission. L’importanza della raccolta fondi sta non solo nell’ intercettare risorse, la sua responsabilità mette l’organizzazione di fronte a un’analisi di se stessa che, se fatta in maniera rigorosa e con spirito positivo, non può che portare benefici.
È necessario un percorso formativo ed esperienziale da consolidare. Di corsi di raccolta fondi ce ne sono tanti e autorevoli, articolati e interessanti. C’è bisogno di continuare a implementare la professionalità nel tempo. Bisogna aggiornarsi rispetto agli strumenti e alle prospettive che il mercato offre, altrimenti si resta indietro.
Ho visto grandi evoluzioni da entrambe le parti. Alcune aziende devono ancora maturare qualche consapevolezza in più, e non vivere come operazioni di pulizia il loro sostegno all’attività del nonprofit. Anche il nonprofit non può pensare di andare a dialogare con un’azienda chiedendo un sostegno alle proprie attività senza che questa abbia un suo tornaconto sul business.
Ho iniziato a parlare di misurazione dell’impatto sociale almeno 10 anni fa. L’evoluzione c’è stata, il mio messaggio è: “Non ci dobbiamo fermare”. Non sono convinto che lo sbandierato criterio dell’impatto sia elemento dirimente per affidare un finanziamento a un’organizzazioni nonprofit. A volte ci sono impatti che non sono misurabili. Abbiamo accolto all’Istituto Serafico una famiglia proveniente dall’Ucraina con una bambina piccola disabile. L’impatto che potremmo generare come istituto è la cura che possiamo fornire a questa bambina, però ce ne è anche uno sulla sua famiglia, il papà ieri ha dichiarato: “Casa mia è dove la mia bambina può stare bene”. Come si misura l’impatto di quell’uomo che è approdato qui da noi? Ascolterei volentieri una professionalità che mi aiutasse anche a misurare questi effetti. La strada sulla rendicontazione anche attraverso i numeri dell’impatto che si genera è stata percorsa solo in parte, c’è ancora bisogno delle giuste professionalità.
Le persone sono molto più solidali verso le difficoltà che emergono e contemporaneamente fanno un percorso di responsabilità e consapevolezza che le predispongono meglio al dono. Negli anni della pandemia si sono misurate raccolte fondi enormi rispetto al tema. Noi abbiamo registrato alla fine del 2020 un volume di donazioni estremamente significativo, su un tema che poco era inerente rispetto alla pandemia. Eppure, in occasione del Natale abbiamo raddoppiato i risultati delle nostre campagne: è cambiata una sensibilità nei nostri interlocutori. Il messaggio è: le emergenze e le solidarietà rispetto ai problemi imminenti sono molto alte. Non va interrotta una campagna che si occupa di altro, perché grazie a una sensibilità incrementata la curva può rimbalzare e tornare a risalire.
Ci sono stati fallimenti come in tutte le occasioni di vita, però questo genera lo stimolo a comprendere dove ci si può correggere. Vivo giornate di depressione, che mi faccio passare in fretta, affinché diventi generativa.
Il Festival deve curare i rapporti. Non c’è un’altra occasione in Italia per potersi incontrare con un migliaio di persone che si ritrovano insieme con il minimo comune denominatore del fundraising. Conoscersi, formarsi e divertirsi: il Festival è un’opportunità che mi dà grande gioia.
Quoziente Humano e media partner del Festival del Fundraising.